Parlare
di certi autori è più complicato. La difficoltà, per quanto mi riguarda,
aumenta con il grado di conoscenza e apprezzamento. Più conosco e amo uno
scrittore, più ho difficoltà a parlarne. L’impressione è di non saperne
abbastanza, di aver compreso solo in minima parte, quell’imbarazzo che si ha
davanti chi si stima troppo.
Goliarda
Sapienza mi mette quel tipo di disagio.
L’ho
conosciuta tardi. Un amico mi aveva regalato L’arte della gioia a vent’anni e siccome nell’edizione di Stampa
Alternativa la copertina era rosa, pensavo, più che legittimamente secondo la
me di allora, che si trattasse di un romanzo femminile. Oltretutto a vent’anni
rifiutavo la lettura di scrittrici donne, e italiane era fuori discussione. Avevo
la mia convinzione.
Mi
sono decisa a leggerla a trentadue anni, quando in ogni libreria e bancarella
di libri usati francesi trovavo L’Arte
della gioia.
Mi sembrava molto strano, non capivo la ragione, e invece ho poi compreso.
L’arte
della gioia in Francia è stato effettivamente un caso editoriale, e una delle
ragioni del successivo successo italiano.
La vicenda
editoriale di questo romanzo è complessa.
Goliarda
Sapienza comincia a scrivere L’arte della gioia nel 1967. Dopo dieci anni
di lavoro e revisione lo propone agli editori ottenendo il
rifiuto di Einaudi, Rizzoli, Mondadori, Feltrinelli eccetera. A nulla serve l’appoggio di Sandro Pertini, il manoscritto non viene accettato. Le ragioni
del rifiuto sono varie, la lunghezza, il tema sovversivo…
Nel
1994 Goliarda riesce a far pubblicare una versione ridotta del romanzo da
Stampa Alternativa, nella collana Millelirepiù.
La
reazione è tiepida e due anni più tardi Goliarda muore, il 30 agosto 1996.
Sotto
la spinta di Angelo Pellegrino (marito di Goliarda e studioso di letteratura)
nel 1998 Stampa Alternativa pubblica la versione integrale nella collana
Eretica.
La
reazione della critica tuttavia è praticamente inesistente. Il numero di copie vendute irrisorio.
Poi nel
2003 il romanzo capita nelle mani della traduttrice francese Nathalie Castagné, sotto suggerimento dell'agente tedesca Waltraud Schwarze, che rimane entusiasta.
Sono rimasta stupefatta di scoprire un testo
così fuori dal comune, è rarissimo avere tra le mani un libro così
straordinario, totalmente sconosciuto.
Nathalie
Castagné propone allora la traduzione all’editrice Viviane Hamy la quale accetta la sfida.
Nel
2005 esce L’art de la joie e la stampa francese si inchina davanti a un libro
che definisce “inquietante e sorprendente".
In un mese si vendono 8000 esemplari
e le principali riviste letterarie cominciano a parlarne.
E insomma in ogni libreria francese ancora oggi si trova L’arte della gioia in bella vista.
Ma questa è stata una deviazione, in questa serie di scritti si parla
delle abitudini degli scrittori, e anche Goliarda ne aveva. Solo che in questo
caso, visto il disagio di cui parlavo, lascio la parola a Angelo Pellegrino.
"Scriveva di solito la mattina cominciando
intorno alle nove e mezza, e andava avanti sino all'una e trenta, le due tutti
i giorni, cercando di sfuggire - e non era facile - ai numerosi inviti a
colazione nel sole di Roma di quegli anni beati e agitati. Diceva sempre che
scrivere significa rubare il tempo anche alla felicità. Si riposava
canonicamente le domeniche. Fumava molto, come un po' tutti allora. La giornata
di lavoro si concludeva poi spesso con un bagno caldo. Nel tardo pomeriggio
suonava alla porta una assai più giovane amica, Pilù, quasi rossa con delicate
efelidi sul viso e grandi occhiali. Insieme fumavano e bevevano, ma soprattutto
Goliarda le rileggeva quanto aveva scritto la mattina. La regolarità
dell'ascolto di Pilù credo sia stata determinante... Pilù ascoltava con
attenzione non professionale ma da accanita e colta lettrice. D'altra parte
Goliarda qualche volta faceva leggere quanto scriveva anche a Peppino, l'amato,
distinto e sensibile portiere della casa di via Denza.
Goliarda e Pilù andavano avanti così fino a
sera. Dopo di che Goliarda cucinava una rapida cena col suo straordinario
talento di cuoca. Riusciva a cucinare di tutto, con tutto, e soprattutto senza
farsene accorgere. Teneva molto al riconoscimento di questo suo talento.
Dicessero pure che era una mediocre scrittrice, ma non che era una cattiva
cuoca...
L'indomani mattina, dopo l'immancabile caffè
nero a stomaco vuoto dei siciliani, Goliarda risaliva al piano di sopra, in
alto fra cielo e nuvole - una curiosa mansarda ricavata da uno stenditoio, con
un'immensa vetrata sul mare di pini sognanti di Villa Glori -, si sedeva su una
bassa poltroncina barocca, si poneva sui ginocchi come scrittoio una custodia
di cartone vuota, che aveva racchiuso vecchi dischi a 33 giri (le fantasie di
Bach eseguite, credo, da Gieseking) e riprendeva a scrivere circondata da
una distesa di appunti tutti disseminati sul parquet. Scriveva sempre su comuni
fogli di carta extra-strong piegati in due perché, diceva, questo formato
ridotto le consentiva una sua idea di misura - io credo però che fosse un
ricordo, un bisogno delle dimensioni del vecchio quaderno dell'infanzia - dove
vergava le parole con una grafia abbastanza minuta, facendo ciascun rigo via
via più rientrato sino a ridurlo a una o più parole, allora ricominciava
daccapo con un rigo intero. Veniva fuori un curioso disegno, una specie di
elettrocardiogramma di parole, sì, una scrittura molto cardiaca. Goliarda
scriveva sempre a mano, diceva che aveva bisogno di sentire l'emozione nel
battito del polso, servendosi di una semplice Bic nero-china a punta sottile.
Ne consumava decine semplicemente perché le disseminava dappertutto e poi non
le trovava più".
(Goliarda Sapienza, L'arte della gioia,
Viterbo, Stampa Alternativa, 2006. Dalla prefazione di Angelo Pellegrino.)
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